Scoperte sul meccanismo molecolare degli antidepressivi

 

 

LUDOVICA R. POGGI

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XVII – 30 maggio 2020.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: RECENSIONE]

 

Anche nelle forme più gravi di depressione maggiore, l’approccio wholistic[1] della nostra scuola neuroscientifica, ispirato dal nostro presidente, prevede un intervento psicoterapico e un insieme di misure adattate al singolo in grado di far cambiare il regime funzionale e indurre il cervello a “guarire sé stesso”. Sfortunatamente, in molte circostanze cliniche mancano almeno due elementi necessari per il successo di questa strategia: uno psicoterapeuta dalle mille risorse e un paziente disposto a seguirne le indicazioni, conscio che la depressione è anche una malattia della volontà, che potrà ricostituirsi con tutta la fisiologia normale solo seguendo con fiducia quanto di volta in volta può essere sostenuto per non entrare nel gorgo paralizzante dei circoli viziosi. Quando non è possibile intraprendere questo impegnativo ma efficace programma di cambiamento, che spesso rivela utilità preventiva contro le ricadute, non resta che affidarsi ai farmaci.

Gli SSRI, nonostante tutti i loro limiti, a cominciare dalla latenza a volte di oltre un mese per produrre i primi effetti fino alla scarsa efficacia nel sesso maschile[2], in molti casi rimangono una delle poche possibilità reali di aiutare persone con forme gravi di disturbo depressivo maggiore o non in grado di intraprendere percorsi che richiedano una partecipazione attiva al proprio cambiamento.

L’inibizione selettiva della ricaptazione di serotonina (5-HT)[3], ossia il meccanismo d’azione col quale sono stati brevettati gli antidepressivi che hanno sostituito i triciclici imipramina e amitriptilina, per una lunga serie di ragioni non si ritiene possa spiegare gli effetti terapeutici di questi farmaci, e dunque si indaga uno spettro di altre possibilità, già da molti anni. In linea teorica, come il nostro presidente faceva notare già in un’intervista dell’ottobre 2003 riportata su questo sito, accrescere la quantità disponibile nello spazio intersinaptico di un neurotrasmettitore in presenza di un deficit caratterizzato principalmente dalla perdita di vari tipi di neuroni, che sintetizzano vari neuromediatori oltre la serotonina, non costituisce una risposta terapeutica adeguata. Già vent’anni or sono appariva evidente che l’efficacia clinica degli SSRI – quando effettivamente si registrava – non poteva essere attribuita a un meccanismo che non accresce la quantità deficitaria del neuromediatore, anzi facilita il suo consumo. Se il blocco della ricaptazione della 5-HT fosse stato il meccanismo dell’azione terapeutica, si sarebbe dovuto ottenere un immediato miglioramento dei sintomi e poi, esaurite le scorte di serotonina, un peggioramento, a meno che nel frattempo non si fosse agito arrestando la causa di perdita di neuroni ippocampali, corticali e di altre sedi cerebrali, che si associa ai disturbi depressivi.

Un reperto pressoché costante nella depressione cronica è la deplezione di dopamina, serotonina e noradrenalina accompagnate alla riduzione volumetrica dell’ippocampo e di altre regioni del cervello.

Recensendo uno studio di Encinas e colleghi pubblicato su PNAS USA, già nel 2006 abbiamo evidenziato la possibilità di un meccanismo, accanto ad altri, di stimolo alla neurogenesi adulta da parte degli SSRI, che gli autori dello studio non esitano a definire “regolatori della neurogenesi”[4]. Gli autori dello studio, dopo aver caratterizzato sei stati di sviluppo delle nuove cellule nervose prodotte nel giro dentato dell’ippocampo, rilevarono che la somministrazione cronica di fluoxetina (Prozac) era in grado di accrescere la quantità di cellule prodotte agendo sugli elementi del II stadio (progenitori neurali amplificanti). Sebbene un meccanismo d’azione di questi farmaci mediato dalla neurogenesi potesse spiegare anche la loro latenza di effetto, che le prime stime fissarono intorno ai 28 giorni, ben presto ci si rese conto che per varie ragioni dovevano essere in gioco altri importanti processi.

Alcuni studi furono sollecitati da preoccupazioni per la salute pubblica, dovute a casi imprevisti di presunta nocività di alcune molecole di SSRI. Ad esempio, si diffuse un allarme circa la possibilità che la paroxetina, commercializzata dalla Glaxo-Smith-Kline con il nome di Seroxat[5], inducesse idee suicide[6]. Si accertò poi che non vi era una specificità per tale rischio. Lavorando sulla latenza di effetto degli SSRI quale prova indiretta della loro azione basata sulla promozione della neurogenesi, si dimostrò che il blocco contemporaneo dei recettori adrenergici α2 era in grado di svolgere un’azione sinergica che amplificava sia gli effetti neurogenetici sia l’efficacia terapeutica sui sintomi depressivi.

Anche se gli SSRI sono gli antidepressivi più prescritti al mondo e gli studi per stabilire il loro esatto meccanismo d’azione sono sempre numerosi, fino ad oggi non sono stati compiuti progressi decisivi. Nelle nostre discussioni sull’argomento, fin dalla fondazione della nostra società scientifica, auspicavamo un interessamento diretto da parte del Premio Nobel Paul Greengard per la soluzione del problema della definizione del meccanismo d’azione responsabile dell’effetto antidepressivo degli SSRI. L’interessamento c’è stato e un ottimo lavoro è stato compiuto, ma Paul Greengard ci ha lasciati il 13 aprile 2019, e lo studio qui recensito, che pure reca la sua firma, è stato pubblicato postumo online in questi giorni.

Oltre che per il valore neuroscientifico e di farmacologia molecolare, presentiamo gli esiti di questo lavoro sul meccanismo d’azione degli antidepressivi per onorare la memoria di uno scienziato che aveva la capacità di trovare una via là dove gli altri vedevano solo un muro o un deserto.

(Chottekalapanda R. U., et al., AP-1 controls the p11-dependent antidepressant response. Molecular Psychiatry - Epub ahead of print doi: 10.1038/s41380-020-0767-8, 2020).

 La provenienza degli autori è la seguente: Laboratory of Molecular and Cellular Neuroscience, The Rockefeller University, New York, NY (USA); Friedman Brain Institute, Department of Neuroscience, Icahn School of Medicine at Mount Sinai, New York, NY (USA).

L’atteggiamento semeiologico e diagnostico nei confronti dei disturbi depressivi è profondamente cambiato, e basta confrontare la differenza di impostazione fra i principali testi di semeiotica psichiatrica di 20-25 anni fa e l’enunciazione dei criteri per l’identificazione del Disturbo Depressivo Maggiore del DSM-5, per rendersi conto di quanto la diagnosi si sia spostata dall’analisi dello stato mentale, nel vissuto soggettivo e nella fenomenica obiettivabile, alla ricerca di sintomi e comportamenti da confrontare con un elenco predisposto.

La semeiotica classica indicava tre caratteri essenziali degli stati depressivi: 1) basso tono dell’umore, 2) inibizione, 3) dolore morale; e, prendendo le mosse da questi capisaldi, descriveva i contenuti mentali più frequenti, il rapporto fra percezione del mondo, fisiopatologia e fenomenica comportamentale. Inoltre, premessa costante ad ogni trattazione che declinava le varie forme (d. endogena o d. maggiore, d. reattiva, d. da stress, d. bipolare, ecc.) era questa: col termine depressione si può indicare un sintomo, una sindrome o una vera e propria entità nosologica: chiarendo che la manifestazione clinica depressiva non indicava una singola e definita patologia, ma poteva essere espressione di processi diversi con la loro specificità di decorso e prognosi.

Le checklist del DSM-5, pur risultando utili a non psichiatri per un generico inquadramento, presentano un notevole difetto: simulano una coerenza fra clinica e psicopatologia non reale, e per conferire una veste rigorosa, peraltro evidentemente artificiosa agli occhi dello psichiatra esperto, enumerano, quali criteri maggiori – ossia quelli che nel modello della patologia internistica sono irrinunciabili per porre diagnosi – dei particolari segni, accanto al loro esatto contrario. Ad esempio, al punto “3” si legge: perdita di peso o aumento di peso; al punto “4”: insonnia o aumento del sonno; al “5”: agitazione psicomotoria o rallentamento. Si tratta, evidentemente, di conseguenze dello stato – e probabilmente di altri fattori modulatori di tipo genetico, epigenetico, ambientale o relati ad altre patologie – da stimare studiando accuratamente la fisiopatologia del paziente, e non sintomi patognomonici, diacritici o caratterizzanti per diagnosticare la depressione, come può far pensare l’inclusione nel “Criterio A” per la diagnosi.

In sintesi, si può affermare che i notevoli mutamenti nella concezione culturale della depressione, con un definitivo abbandono degli approcci psicodinamico e fenomenologico ma in parte con un peggioramento nella qualità degli accertamenti, non hanno fatto registrare progressi in chiave terapeutica e il ricorso agli SSRI rimane ancora un’opzione molto seguita in tutto il mondo.

In proposito, è opportuno ricordare che tre anni or sono una scoperta di Lucian Medrihan e colleghi nel laboratorio di Paul Greengard ha consentito di identificare un bersaglio ristretto di neuroni nel giro dentato (neuroni CCK)[7] provvisti del recettore serotoninergico 5-HT2A, l’unico dei 14 recettori in grado di mediare gli specifici effetti a lungo termine della serotonina richiesti per la terapia della depressione[8]. I neuroni CCK del giro dentato si ritiene costituiscano la prima sede dell’azione farmacologica degli SSRI e di questa scoperta Greengard il 26 luglio del 2017 per il sito della Rockefeller University disse: “Dovrebbe facilitare lo sviluppo di nuove classi di farmaci potenti e selettivi”[9].

La concezione attuale, entro la quale si è sviluppato lo studio qui recensito può così essere sintetizzata: si ritiene che gli SSRI esercitino i loro effetti terapeutici elevando il livello extracellulare di 5-HT nel cervello e rimodellando le alterazioni strutturali e funzionali derivanti dalla deregolazione depressiva. Per determinare il loro preciso modo di azione, Revathy U. Chottekalapanda e colleghi coordinati da Greengard hanno verificato se i processi neuroadattativi sono modulati dalla regolazione di specifici programmi di espressione genica. Il primo risultato è consistito nell’identificazione di un programma trascrizionale regolato dal complesso della proteina attivatrice AP-1, formato da c-Fos e c-Jun, che è selettivamente attivato prima dello stabilirsi della risposta cronica agli SSRI.

Il programma trascrizionale AP-1 modula l’espressione di geni chiave per il rimodellamento neuronico, incluso S100α10 (p11), che lega la plasticità neuronica alla risposta antidepressiva.

La sperimentazione di verifica ha dimostrato che la funzione di AP-1 è richiesta per l’effetto antidepressivo in vivo.

I ricercatori hanno poi accertato che le vie biochimiche di BDNF e FGF2, attraverso le cascate di MAPK, PI3K e JNK, regolano la funzione di AP-1 per mediare gli effetti benefici della risposta antidepressiva.

Questo studio porta alla luce una rete molecolare sequenziale per tracciare la risposta antidepressiva e fornisce una nuova via per accelerare o potenziale la risposta antidepressiva innescando la neuroplasticità.

 

L’autore della nota ringrazia la dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza e invita alla lettura delle recensioni di studi di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).

 

Ludovica R. Poggi

BM&L-30 maggio 2020

www.brainmindlife.org

 

 

 

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[1] Il termine wholistic medicine è stato creato da Linda Faye Lehman per definire l’approccio complessivo all’organismo e alla psiche della persona, secondo il metodo multidisciplinare integrato a gerarchie di priorità variabili introdotto da Giuseppe Perrella.

[2] Negli uomini depressi prevale più spesso il deficit di catecolamine su quello di serotonina, e verosimilmente questo sarebbe il motivo della scarsa efficacia degli SSRI. Non pochi psichiatri sono tornati per alcuni pazienti alla prescrizione dei triciclici che inibiscono la ricaptazione anche delle catecolamine.

[3] Tra gli SSRI (selective serotonin reuptake inibitors) più prescritti: la fluoxetina (Prozac, Fluoxerene, Fluoxetina), la fenoxetina, la fluvoxamina (Maveral, Fevarin, Dumirox), il citalopram (Elopram, Seropram) e la sertalina (Zoloft). Tutti questi farmaci sono quasi privi degli effetti collaterali anticolinergici tipici degli inibitori della ricaptazione triciclici.

[4] Note e Notizie 08-07-06 Antidepressivi come regolatori della neurogenesi.

[5] Un altro brand-name della stessa molecola, più noto in Italia, è Sereupin.

[6] Note e Notizie 03-09-05 Seroxat e suicidio: un po’ di chiarezza.

[7] Ricordiamo che la tecnica per l’identificazione di questi neuroni (translating ribosome affinity purification) fu creata dallo stesso Greengard con Nathaniel Heintz presso la Rockefeller University di New York.

[8] Il recettore 5-HT1B sembra invece mediare gli effetti precoci dopo la somministrazione. È opportuno ricordare, come ama ripetere il nostro presidente, che oltre mille tipi neuronici encefalici possiedono recettori per la serotonina e che potenzialmente tutti possono essere influenzati dall’inibizione della ricaptazione causata dagli antidepressivi.

[9] Cfr. Fast-acting antidepressants may finally be within reach in “The Rockefeller University” Science News July 26 2017 www.rockefeller.edu.